“Amaranthus quitensis” è il nome botanico. “Yuyo colorado” o “Sangorache” due di quelli usati nel lessico corrente.
In sostanza, la pianta (appartenente alla classe delle “dicotiledoni”) che produce i semi dell’amaranto: i quali, pur avendo caratteristiche tali a da renderli assimilabili ai cereali, in realtà non lo sono (così come il grano saraceno). Un ingrediente tipico della dieta di molte popolazioni stanziate in America Latina, dall’Ecuador alla Bolivia; tra le quali contribuisce alla tessitura e alla sedimentazione delle tradizioni rurali e contadine di quei territori.
È stato soprattutto questo aspetto, il legame con le comunità contadine e il loro paesaggio umano a far scattare – in noi del “Forte” – l’associazione, quasi immediata, con un contesto antropologico paragonabile, al di qua dell’Atlantico. Quello delle campagne belghe, dove, fin dal medioevo, si producevano le birre chiamate Saison perché preparate per la manodopera stagionale, i “saisonnières”; e, ancor più in particolare, l’ambiente delle aree non urbane della provincia dello Hainaut, che furono interessate, a fine Ottocento, da una trasformazione strutturale: da distretti in prevalenza agricoli a zone caratterizzate invece da una nuova vocazione, carbonifera ed estrattiva. Miniere, insomma: e, con esse, una diversa classe di lavoratori. Ai quali, negli orari di uscita dai pozzi, venivano offerti dissetanti boccali di birra da parte di ragazze appositamente preposte a questo servizio, con indosso divise di colore grigio: e perciò dette “grisette”.
Un termine che finì per passare a designare la birra stessa specificamente preparata per i minatori: leggera (la gradazione si suppone fosse fra il 3 e il 5%), di corpo sottile, pensata esattamente allo scopo di rinfrescare il palato: obiettivo, questo, ricercato anche attraverso una certa amaricatura da luppolo.
Innestata su quale “base”? Le fonti non danno indicazioni chiare; di certo, però, la cornice storica e geografica era, lo si è detto, quella delle Saison: la tipologia “figlia dei prati” e di tutto quello che potevano regalare; compresi cereali vari e diversi, rispetto a orzo e frumento.
Da qui l’idea di una nostra interpretazione del canovaccio Grisette: battezzata proprio “Sangorache” perché lavorata appunto anche con amaranto boliviano.
Il colore è un paglierino scarico, quasi pergamena; l’aspetto velato; la schiuma bianca e copiosa.
L’aroma, fresco, richiama il pane appena infornato, la frutta in prima maturità (pera), i fiori (sambuco, tiglio, lino), le spezie (chiodo di garofano, pepe), con una curiosa punta minerale-affumicata.
La sorsata vibra di agilità, grazie al corpo leggero (come la gradazione: 5.2%) e alla bollicina vivace, nonché al gusto asciutto, colorato in chiusura da un dosato taglio amaricante.
Come dire: esile ma piena d’energia!
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