American Pale Ale alias APA: ovvero… la nipote d’oltreoceano.
E una nipote che – come talvolta accade nelle storie d’espatrio al di là dell’Atlantico – finisce per fare fortuna: tanto da oscurare in parte (in buona parte, nella fattispecie) la gloria della stessa nonna. Una nonna britannica, diciamolo subito: com’era facile che fosse, per un calcolo delle probabilità, data la larga prevalenza statistica, nei flussi di emigrazione sotto la bandiera a stelle e strisce, delle provenienze dal Regno Unito e dall’Irlanda.
Direte: vabbè, ma non è il caso, ora, di cominciare a scoprire le carte nel racconto di questa, diciamo, saga familiare? Sì, lo è: e dunque, iniziamo. La nonna di cui stiamo parlando è la English Pale Ale, la tipologia ad alta fermentazione in abito ambrato comparsa sulla scena d’Albione tra secondo Seicento e inizio Settecento.
Prima di allora, la cottura dei cereali da impiegare in ammostamento si eseguiva a fiamma diretta, dando luogo a tostature assai pronunciate e, per conseguenza, a pinte dal colore piuttosto scuro. Con il brevetto, appunto a metà XVII secolo, del forno a getto d’aria, si diviene in grado di preparare malti assai più chiari: così come le birre che, da essi, traggono vita. Talmente più chiare, rispetto alla media, da essere battezzate con l’appellativo di pallide: le Pale Ale, come detto.
Ora, lungo tutto il Settecento le Pale Ale (che sono frutto di una tecnologia nuova, dunque costosa: e perciò costose esse stesse) conoscono una diffusione non dilagante; ma destinata a diventare tale con l’abbassamento, via via lungo i decenni, del loro prezzo di produzione. L’Ottocento ne decreta l’esplosione come fenomeno di mercato; con proporzioni in virtù delle quali, da quella tipologia, traggono vita già due derivazioni: la Bitter e la India Pale Ale, meglio nota come IPA. Une genealogia fortunata, vincente: con la Bitter che, nel corso del Novecento, s’impone quale il più iconico tra gli stili cari ai sudditi di Sua Maestà; e con la genitrice storica, la English Pale Ale, che, alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, diventa modello per una sua reinterpretazione, appunto, secondo il sentimento americano. Succede infatti che, dall’inizio del decennio, i laboratori agronomici dello Zio Sam prendono a mettere sul mercato luppoli di nuova generazione, dal timbro fresco e vigoroso (agrumi, frutta esotica, resine…); luppoli con i quali il movimento brassicolo artigianale statunitense, nato poco prima del 1980, si dedica a rivisitare archetipi stilistici europei: e britannici in particolare.
Risultato? Una trasformazione genetica. Se la Pale Ale primigenia presenta, al naso, note di biscotto, nocciola, mela, rizomi, matita; e se, al palato, rivela un’amaricatura bilanciata di timbro terroso; la figlia yankee esibisce invece un carattere improntato alle direzioni aromatiche dettate dai nuovi ingredienti di cui si è detto e una bitterness abbastanza più pronunciata.
La storiografia birraria individua, come capostipite delle Pale Ale moderniste (anche tendenzialmente più chiare rispetto al modello inglese), quella lanciata nel 1980 dalla Sierra Nevada Brewing Company (di Chico, California): in quest’ottica la nostra From West Coast (ovvero Dalla Costa Ovest, appunto) si propone tra le eredi contemporanee della matriarca. Con quali connotati? Colore dorato; profumi di pompelmo, uva spina e cipresso; bevuta saettante (4.5 i gradi alcolici), scandita da una vena luppolata incisiva e pulita. Una folata di brezza del Pacifico sulle rive del Tirreno…