Una ricetta in origine francese ma che si afferma tra i classici della nostra tradizione culinaria, tanto da diventarne una delle voci identificative. Una preparazione che è cambiata nel tempo (l’Artusi, nel suo manuale del 1891, non prevedeva l’uso del pomodoro) e che ha diverse declinazioni, le più canonizzate tra le quali sono la napoletana (con sola carne di manzo, senza trito di cipolla e verdure) e la bolognese (con carne bovina e suina, pancetta compresa, più il “battuto” appena menzionato). Un condimento che si applica a polente, lasagne e primi piatti a base di pasta la più assortita nei formati: dai paccheri alle tagliatelle all’uovo.
Sì, tanta e ricca è la storia che sta dietro al ragù: un termine che, lo si accennava, deriva dal francese ragoût (col significato di “alimento in grado di risvegliare l’appetito”, a indicare, in principio, della carne stufata con abbondanza di condimento, servita a sostegno di altre pietanze); un termine che – questa è curiosa – durante il Ventennio, in virtù della foga autarchica del periodo, si tentò di italianizzare in un ragutto. Soluzione lessicale tanto comica (e fortunatamente non attecchita) quanto splendido e vigoroso è il sapore di questa salsa alla quale nel nostro Paese si è profondamente affezionati: in una misura tale che la pone fra le prime nella “lista delle cose che ci mancano” quanto si è lontani dalla Penisola.
L’intensità gustativa di un buon ragù (fatto concentrare sul fornello tre orette almeno) vale quella di una carica di cavalleria; e parimenti elevate sono sia la sua persistenza post-masticazione sia la sua complessità sensoriale. Immaginando di averne pronto un bel pentolino e di farne il condimento per una sostanziosa porzione di maccheroni fumanti, il naso riceve infatti non solo le fragranze della materia carnea (varietali e generate sotto cottura), ma anche quelle del pomodoro e degli altri ortaggi (basilico, ad esempio, nella versione napoletana); parimenti, il palato fa apprezzare il contributo in grassi della stessa carne e quello dell’olio (o del burro e del latte, nell’interpretazione bolognese), poi un “fondo” di dolcezza, più le “incursioni” di una lieve acidità (il pomodoro, la cipolla…), di una dosata piccantezza (nell’appena citata versione bolognese il pepe è espressamente previsto) e soprattutto di una robusta sapidità.
Argomenti sensoriali di fronte ai quali occorre una birra che sia essa stessa dotata di muscoli, per tenere testa a quelli del piatto; che sia provvista di bollicina vivace e di buona gradazione, con le quali gestire la materia lipidica del boccone; e che sia contrassegnata da una buona base zuccherina, atta ad ammansire le veemenze più ficcanti del morso. Ebbene, questi connotati portano dritti a un identikit: quello de La Regina del Mare, la nostra Belgian Dark Strong Ale; una sorsata con tutti i requisiti appena elencati e caratterizzata, inoltre, da note gustolfattive di tipo tostato che sembrano fatte apposta per richiamare le poc’anzi accennate profumazioni prodotte dalla carne tenuta lungamente a rosolare sulla fiamma.
Piatto di scuola italiana, bicchiere di passaporto stilistico belga: viva la fratellanza tra i popoli! Tanto meglio se a tavola…