Chissà se papa Silvestro 1, trentatreesimo pontefice della chiesa cattolica, in carica dal 314 fino alla sua morte, avvenuta il 31 dicembre del 335, avrebbe pensato di essere proclamato santo; e di veder associato il proprio nome a una ricorrenza così poco sacra, anzi del tutto profana (meglio ancora: una tra le celebrazioni più sfrenate del consumismo e del materialismo in generale), come lo è la festa di capodanno.
Probabilmente, a entrambe le domande, la risposta è “no”. Ma poco importa: in questo modo è andata la storia; e così l’espressione “San Silvestro” ha finito per rappresentare non soltanto una “locuzione coincidente con”, ma un vero e proprio “sinonimo del” millenario rito gastronomico codificato sotto il nome di “cenone”. Con quella formula modellata in una desinenza accrescitiva, “one”, che mette un po’ di timore (come minimo un filo di preoccupazione) già al solo sentirla pronunciare: “cenone”.
Ebbene, in effetti spesso la tavola del 31 dicembre si trasforma in una sagra dell’eccesso: appena riscattata dalla possibilità di consumare ciò che avanza (magari riciclandolo e reinventandolo) anche un giorno o due dopo la fine della “battaglia”. Ponendo invece, qui, di voler seguire il metro di una sostanziale sobrietà, abbiamo immaginato un menù strutturato su non più di quattro portate: un antipasto, un primo piatto, un secondo con contorno e un dolce. Certo, un’ipotesi del genere è, in sommo grado, un’astrazione: ché tra Bolzano e Siracusa, tra Genova e Napoli, fra Trieste e Lecce, quel “paradigma” in quattro voci si declina dando luogo a versioni abissalmente diverse tra loro.
Eppure, definire una “scaletta di ricette” abbastanza trasversalmente tipiche da mettere d’accordo le varie latitudini e longitudini dello Stivale, ci sembra ugualmente una “missione possibile”.
Abbiamo dunque imbandito virtualmente una sequenza così assortita: tartine al formaggio fresco spalmabile spolverizzato con erbe e spezie tritate; cappelletti in brodo; cotechino con lenticchie; e, per finire, una porzione di torrone morbido.
Eh sì, preparazioni e personalità sensoriali estremamente differenti; ma con almeno un denominatore comune: ciascuna di esse può trovare l’accompagnamento idoneo in una delle (tante) birre targate “Il Forte”. Vogliamo scommettere? Ecco qua…
Con le tartine, la Cento Volte Forte, la nostra Witbier da 4 gradi. La sua acidulità e la sua bollicina terranno sotto controllo la frazione grassa della guarnitura; la sua piattaforma aromatica – fruttata, floreale e speziata – aggancerà quella del boccone in una successione di piacevole continuità.
Con i cappelletti, la Mancina, la nostra Belgian Golden Strong Ale da 7 gradi e mezzo: alcolica ed effervescente quanto basta per gestire, anche qui, la componente grassa del piatto (tra pasta all’uovo, brodo e ripieno); in bocca morbida e di lieve dolcezza, così da operare in gradevole “contrasto armonico” sulla sapidità della pietanza.
Con il cotechino e le lenticchie, la sorella della Mancina stessa, la Regina del Mare, una Belgian Dark Strong Ale da 8 gradi: di nuovo una sorsata dolce, per dialogare in eufonia con la sapidità della carne e del contorno; di nuovo una bevuta eccellente per capacità di diluzione delle densità lipidiche in pista (elevate, nella fattispecie: con il suino che spinge forte); e in più, al naso, un a birra tostata, a riprendere le bruniture, le crostificazioni, che la cottura apporta a carico sia del maiale sia dei legumi.
Per chiudere, ad “annaffiare” il torrone, ecco la Cintura d’Orione, la nostra Winter Ale, una bomba da 10 gradi con miele in aggiunta diretta: la sua entità zuccherina asseconda quella del dolce a cubetti; i suoi aromi producono lo stesso effetto sulle direttrici olfattive (analoghe) del dessert, decretando un trionfo di frutta secca, caramellature e agrumi canditi. Come dire: tutti i salmi finiscono in Gloria…