Come si è detto a conclusione di un post pubblicato qualche mese fa, in tema di teoria e pratica della degustazione, l’assaggio di una birra termina (culmina, in effetti) con una valutazione circa l’equilibrio del prodotto “sotto esame”: ovvero sulla sua capacità di esprimere gradevolezza attraverso il livello (più o meno elevato) di bilanciamento. Un giudizio, questo, che può essere espresso sia in senso assoluto (ponderando solo il grado di piacere che il sorseggio procura, senza altra considerazione); sia in senso “parametrico”, tenendo conto, cioè, della “tipologia” alla quale il prodotto in questione dichiara di richiamarsi: perché una Pils è per propria natura diversa da una Stout, così come questa lo è da una Saison, mentre una Saison lo è da una America Ipa e così via.
Già… Ma cosa stanno a indicare quelle designazioni? Cosa significano diciture come quelle appena elencate? Cosa deve recepire chi si sente consegnare definizioni quali – appunto – Pils o Stout o Saison o America Ipa? Ecco, queste denominazioni corrispondono ad altrettante “tipologie” (o “stili” che dir si voglia). La domanda sostanziale è dunque cosa rappresenti una tipologia.
La “tipologia” costituisce il concetto di base (l’unità fondamentale, in un certo senso) attorno al quale ruota il criterio generale di classificazione di una birra. In soldoni, ogni tipologia allude a un determinato profilo organolettico. Quindi, ad esempio, se dico “German Pils”, mi riferisco a un prodotto di colore dal paglierino al dorato, di gradazione tra il 4.5 e il 5% (abbondante) circa, dai profumi prevalentemente panificati ed erbacei, dal gusto improntato a una venatura amara non arrogante ma netta e persistente. Mentre se dico “Dry Stout” mi riferisco a un prodotto di colore dal bruno scuro all’ebano, di gradazione tra il 4 e il 4.5% circa, dai profumi prevalentemente torrefatti (caffè, orzo in tazza…), dal gusto modulato secondo una tonalità d’amaro secca, incisiva e piacevolmente “bruciata”.
Insomma, ad ogni tipologia corrisponde un determinato identikit sensoriale (stabilito tenendo conto, ovviamente, di certi margini di tolleranza, da applicare ai valori fissati per ciascuno dei parametri considerati). E, in modo speculare, ogni birra che circoli sul mercato e che si presenti al consumatore “esibendo” l’appartenenza a una determinata tipologia, dovrebbe risultare conforme al temperamento sensoriale che a quella tipologia corrisponde.
“Dovrebbe”, attenzione. Perché se questo è il principio teorico che lega un certo prodotto alla sua “classificazione dichiarata”, la realtà spesso trasgredisce tale vincolo. Per farla, anche qui, breve: può capitare di acquistare una Pils che, rispetto a quella fisionomia ideale di cui si è detto, presenta ben pochi punti in comune. Ecco: in quel caso, cosa succede? In realtà niente, se non nel personale archivio-informazioni del consumatore. Il quale prende atto dell’accaduto e farà, se vuole, tesoro di quell’esperienza.
Infatti, se pure è vero che, in campo birrario, una “tipologia” rappresenta grossomodo ciò che, in ambito vinicolo, è costituito da un “disciplinare” (in sintesi: l’indicazione di precise prescrizioni produttive, al fine di ottenere una personalità organolettica ripetibile e riconoscibile), è altrettanto vero che tra quei due concetti corre una differenza essenziale. Mentre un disciplinare vinicolo ha valore normativo (e derogare dal suo dettato può implicare sanzioni), una tipologia birraria – a meno di pochissime eccezioni, come il Lambic belga o la Kolsch tedesca – ha valore consuetudinario: ovvero di riferimento, senza che ciò comporti risvolti di carattere legale.
Sì, la materia è ampia. Per (iniziare a) conoscerla, occorre approfondire l’argomento; e per approfondire, il modo migliore è fare pratica: assaggiare.
Ovviamente non a caso, ma con metodo. E per questo al Birrificio del Forte abbiamo un programma di percorsi formativi specificamente pensati allo scopo. Il prossimo è in calendario a partire dal 27 ottobre; per tutte le informazioni, scriveteci!