La Pasqua e la tavola: un legame inscindibile, fin dalle origini ebraiche della festività. Origini nelle quali l’atto del consumare il pasto ha un preciso significato simbolico, con cui ci si riferisce alla transizione, per il popolo eletto, dalla precedente condizione di schiavitù (in Egitto) a quella di piena libertà. Sì, la Pasqua è, nella sua essenza più profonda, questo: la celebrazione di un “passaggio”. Permettendoci di trattare il tema in chiave leggera, diremo che anche la società odierna, largamente secolarizzata e allontanatasi da una dimensione spirituale in senso precipuamente religioso, vive ugualmente questa ricorrenza come chi sta varcando una porta: quella che si lascia alle spalle la stagione invernale e che conduce verso i mesi caldi. In altre parole: addio alle giornate fredde, addio agli alibi per i rifornimenti di calorie; “benvenuto” regime della bilancia e dello specchio, tirannia necessaria in vista della non lontana prova-costume.
E dunque… Dunque il pranzo di Pasqua è l’ultima occasione, o quasi, per fare baldoria. Bene: allora, che baldoria sia! E ad annaffiare il tutto, una buona birra. Anzi, magari anche più d’una: naturalmente targate “Il Forte”. Si potrebbe cominciare con un duetto “antipasto-primo piatto” funzionale a un gioco di intercambiabilità tra due etichette-bandiera del nostro catalogo: Gassa d’amante e La Mancina. La prima – una Golden Ale chiara, leggera in corpo e alcol (4.5 la gradazione), delicatamente amara – potrebbe accompagnare un’apertura affidata a una porzione di fave (esse stesse amarognole) e formaggio fresco (non sapido); per poi proseguire il lavoro su un timballo di lasagne ricotta e spinaci (anche qui, moderarsi con il cloruro di sodio). Invece La Mancina – una Belgian Golden Strong più robusta ed etilica (7,5 i gradi), nonché più orientata alla dolcezza – potrebbe abbinarsi a ricette, queste sì, di maggiore spinta sapida: una ciambella di riso ripiena (di pancetta, provola, piselli zucchine); e, risalendo alla portata d’ingresso, a un classico della tradizione toscana, come due fette di schiacciata di Pasqua (un dessert, in effetti: a base di farina, uova, burro e zucchero, più semi di anice) imbottita con qualche fetta di salame. Dai, le prime tappe del menù sono sistemate; si va ora con il “secondo”; e qui proponiamo di cambiare, rispetto alla consueta “ciccia”: optando per delle uova (sode) il cui albume, “scavato” del tuorlo, venga poi riempito con un impasto ottenuto mischiando il tuorlo stesso a un condimento di peperone rosso e formaggio fresco (entrambi a cubetti), più filetti d’acciuga tritati. La materia grassa e il sentore ittico del pesce, con la sua sapidità (sommata, eventualmente, a quella del “cacio”) chiamano in campo acidità, bollicina e bassa (se non nulla) amaricatura: in tra parole, la Cento Volte Forte, una Witbier da 4 gradi, aromatizzata con coriandolo più scorze d’arancia e bergamotto. Attenzione, però: se acciughe e formaggio presentassero una salatura minima, nel calice potremmo provare anche la Saison del Villaggio (coi suoi 6 gradi), ugualmente frizzante e acidula, ma dotata di una lieve chiusura amaricante. Infine, non può mancare il dolce; e volendo scansare accuse d’eresia, la risposta non è che una: la colomba. Da irrorare con birre ugualmente zuccherine: la Cintura d’Orione, una Winter Ale al miele, diverso ogni anno, la cui gittata alcolica è pari a 10 gradi; oppure la Birrasanta, un Barleywine affinato in botticelle (da Vin santo, è chiaro), roboante dei suoi quasi 16 gradi e delle sue austerità liquoroso-ossidative che ricordano lo Sherry.
La pennellata finale: alla dieta, ci pensiamo da Pasquetta in poi…